Leadership

Uccidere il maestro per ri-nascere

Uccidere il maestro per ri-nascere
5 Ottobre 2022

Abbiamo sempre cercato avidamente la salvezza, sin dall’alba dei tempi.

La si cerca nel cosmo, in un Dio.

Talvolta la si mendica a uno sciamano, oggi più facilmente a un terapeuta.

Al prezzo dell’essere ligi la si potrebbe comprare in un Credo, vezzeggiandosi nelle vesti di un dogma talvolta ahimè talmente stretto sino a fare male.

In lungo e in largo si prodiga e si è prodigato l’uomo per stanare ciò che invece, quasi per ironia, solo in lui si trovava da tempo immemore.

Angoscia, crisi (dal greco crisis: scelta), disperazione e sofferenza sono il veicolo dorato che permette questa ricerca.

Venduti come elemento da cui rifuggire, queste dimensioni interiori dell’essere umano sono, se ben accolte, slancio verso l’avventura del Sè cosmico. Avventura senza tempo, essa ci conduce ai vascelli dell’insondabile, ai litorali della fonte infinita che da infinito tempo ci disseta.

Eppure, invano, continuiamo a cercare risposte là dove solo possono generarsi tutt’al più le corrette domande.

Il terapeuta non ha alcun potere di guarire il paziente.

Esso può di certo creare le giusti condizioni, ma sarà solo ed esclusivamente il paziente a varcare la soglia.

Proprio come l’acqua sul fuoco bolle, ma non tanto grazie al fuoco, piuttosto per mezzo del fuoco che la pone nella corretta posizione per farlo. Il bollire è caratteristica intrinseca dell’acqua. La realizzazione, poi, si genera nelle condizioni giuste perché la magia avvenga.

La storia è la stessa da sempre.

Stiamo male e prontamente capitoliamo fra le braccia di chi dovrebbe salvarci.

Se però il guru, il leader o il maestro sarà abbastanza abile da scansarsi, con un abile mossa di judo terapeutico o gestionale, permetterà al paziente di cadere per terra deluso. Solo dopo, una volta persa la speranza, lo potrà condurre per mano verso i suoi paesaggi più intimi.

All’inizio i maestri si adorano, alla fine… si devono perdere.

 Il rapporto con loro è spesso d’amore.

Ma quando l’intimità tocca il vertice, quando ci si conosce abbastanza, a quel punto il maestro può aiutare il discepolo a liberarsi da lui.

All’inizio è impossibile. Non capiresti. Se un Maestro cercasse di liberarti dalla sua presenza, soffriresti. All’inizio hai bisogno di qualcuno su cui appoggiarti, qualcuno da cui dipendere, qualcuno di cui puoi essere schiavo.

Ma se anche il maestro prova soddisfazione per la tua dipendenza, non è un maestro. È un pericolo. Se anche lui si sente gratificato, allora si avrà una dipendenza reciproca: tu dipendi da lui e lui dipende da te. 

Ma se ti rifiuta fin dal primo istante non si creerà intimità. E se non c’è intimità, non ci si potrà impegnare nell’ultimo passo.

Solo quando ti fidi del tuo maestro al punto da riuscire a lasciarlo se lui ti dice: «Lasciami», puoi essere liberato. Se ti fidi del tuo maestro al punto da riuscire ad “ucciderlo” se lui te lo chiede puoi essere liberato, non prima.

L’ultimo messaggio di qualsiasi vero maestro sarà: «Diffida di me!» ma questo non può essere detto all’inizio.

All’inizio cerchiamo infatti tutti di usare i nostri maestri.

E altrettanto il rischio è che alcuni di essi lo permettano.

Ma la guerra è sempre con se stessi, con la nostra medesima natura.

Una natura fragile, ma peregrina.

Il pellegrino, si tratti del paziente di oggi o di un pellegrino dei tempi precedenti, è in guerra con se stesso, in lotta con la sua stessa natura. Tutte le battaglie veramente importanti vengono combattute all’interno del sé.

(Sheldon B.Kopp)

C’è una storia, che spesso racconto, che può esser metafora di questo legame.

Si narra che un ricco sceicco arabo lasciò in eredità ai suoi quattro figli maschi 39 cammelli, con la clausola di doverseli dividere secondo le sue volontà, pena la perdita di tutto.

Metà dovevano andare al primogenito, un quarto al secondogenito, un ottavo la terzo figlio, ed un decimo dei cammelli all’ultimo, curando con ogni attenzione la salute degli animali che non potevano essere venduti o uccisi.

I figli andarono nel deserto a discutere, ma non fecero che litigare perché non sapevano come fare per rispettare le volontà del padre.

Erano in un momento critico della discussione, quando in lontananza videro arrivare un saggio errante a dorso di cammello. Si avvicinò ai fratelli, alla loro richiesta di aiuto si fece spiegare il problema e così rispose:

“Ai vostri 39 cammelli aggiungo il mio e fanno 40; al primo di voi va la metà: 20 cammelli; al secondo un quarto: 10 cammelli; al terzo un ottavo: 5 cammelli; all’ultimo un decimo: 4 cammelli. 20+10+5+4 fanno 39 cammelli. È rimasto il mio che se permettete mi riprendo”. E se ne andò, lasciando tutti sbigottiti e senza parole.

Di fronte a questa storiella saremmo quasi portati, come i quattro fratelli, a credere che la divisione sia stata resa possibile grazie a un qualche intervento di tipo “magico”. In realtà il saggio non ha operato alcuna magia, ma si è limitato semplicemente ad applicare una logica matematica rigorosa, ossia ad aggiungere una “x”. Alla fine dell’operazione, poi, non ha fatto altro che riprendersi la “x”.

Il senso è quello di porsi come risorsa utile al paziente, ma altrettanto avere la capacità di dileguarsi per permettere al paziente stesso di procedere con i suoi stessi passi.

Proprio come il saggio errante, o il terapeuta, anche il coach esperto di cambiamento mette in gioco i propri strumenti e la sua professionalità per poi riprenderseli dopo aver innescato un cambiamento evolutivo del sistema su cui è intervenuto. Le sue strategie non sono tuttavia frutto di un improvviso atto di creatività, ma sono basate sull’applicazione di un preciso e rigoroso modello logico di intervento.

🔻 In che modo questo discorso trova un senso nel contesto aziendale?

I leader, pur bravi che siano, rischiano di produrre più attaccamento (tra l’altro considerato uno dei 3 veleni buddhisti) verso i loro collaboratori rispetto a quello che sarebbe necessario.

Mi spiego meglio: nel processo di delega aziendale noto spesso diversi errori. Uno di questi potrebbe essere riscontrabile nel delegare troppo poco, impedendo al collaboratore una sua crescita indipendente.

Spesso però si delega troppo poco perché a monte manca la corretta formazione e la costruzione di una conseguente fiducia frutto dei corretti monitoraggi iniziali.

Il problema però si potrebbe collocare anche in un eccessivo controllo, aspetto successivo alla delega, che spesso rischia da una parte di produrre una sensazione di incapacità, e dall’altra di soffocare quella libertà necessaria per mettere in atto il proprio potenziale acquisito, anche attraverso l’errore.

🔻 C’è qualche correlazione anche con qualche altra competenza trasversale Alessandro?

Certo! Nella gestione delle emozioni, e più precisamente in quella della paura, ci sono (secondo il modello Strategico) tre atteggiamenti che potrebbero peggiorare la situazione invece che migliorarla. Uno di questi è chiedere eccessivo aiuto a qualcun altro.

Perché? Perché questo affermerebbe ancora con più forza che noi non siamo in grado di affrontare ciò che ci spaventa. Il terapeuta/ coach/ maestro sarebbe perciò ostacolo e non risorsa

Ma c’è di più.

Non si tratta solo di uccidere i nostri maestri esterni.

Anche quello interno deve morire.

Ogni definizione che diamo infatti a noi stessi, limita la nostra stessa ricerca.

Quando diciamo che siamo cattolici, buddisti, musulmani, agnostici, atei o vattelapesca…ci stiamo limitando, definendo, arenando.

Il rischio della saggezza interiore, raggiunta con sforzo e pratica, comporta il pericolo del compiacimento.

La mente dovrebbe essere sempre limpida, come quella di un bambino.

Lo stato risvegliato della mente ha le qualità dell’alba del mattino: è fresco e splendente, completamente sveglio.

Paradossalmente,

come umani ci dimeniamo tanto per apprendere,

quando la cosa più importante da imparare sarebbe quella di dimenticare tutto.

Dovremmo imparare anzitutto a non essere così egoici da pensare di non necessitare dei maestri.

E poi, con grande ardore, dovremmo decapitare sia ciò che loro rappresentano, sia quello che siamo divenuti grazie a loro.

Un atto di estremo coraggio, che abbraccia la morte di sé e della rappresentazione ingombrante.

Una atto di liberazione insomma, anche di spazio mentale.

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