Gestione delle emozioni

Vivere la vita, per quella che è

Vivere la vita, per quella che è
28 Gennaio 2025

Vi è un’indicazione di Alejandro Jodorowsky che apprezzo molto e rispetto alla quale, pur con fatica, cerco sempre di applicarmi:

“Le cose sono come sono e noi soffriamo perché le avevamo immaginate diversamente”.

Penso che contenga molta saggezza e che possa ben indicarci una delle strutture della seconda nobile verità buddhista, ovvero la verità dell’origine del Dukkha (con questo termine si vuole designare qualcosa che ha a che fare con la sofferenza umana – in verità la traduzione è ben più ampia e complessa, ma per facilitarvene la comprensione riduciamo il termine a sofferenza).

A tal proposito è facile capire che osservare e vivere i fenomeni per quello che non sono, con la conseguente discrepanza fra l’ideale e il reale, può portarci nel tempo a diverse conseguenze, capaci di scatenare la sofferenza: delusione, rammarico e rabbia sono solo alcune di queste.

Come agire perciò a tal proposito, onde evitare di struggerci per desideri impraticabili?

Rileggendo Richard Shankman ricordo che:

“Una mente concentrata è descritta come luminosa, libera da impurità, flessibile, stabile e raccolta ed è con tale qualità della mente che ci rivolgiamo all’insight, cioè alla chiara comprensione. C’è molta enfasi sull’insight nella meditazione buddhista: insight significa comprendere come stanno le cose e dunque comprendere la natura incerta e impermanente della vita e riconoscere e far pace con la vita nei suoi termini”.

“Riconoscere e fare pace con la vita nei suoi termini”.

Adoro questa affermazione.

Ammiro la natura che ci mostra, che poco distante si pone dal prodotto di una mente Mindful, ovvero da quell’aspetto della mente capace di mostrare le cose per quello che sono, spoglie da tutte le congetture, i pensieri e le strutture che senza accorgerci appiccichiamo a esse, costruendo mondi di senso meravigliosi, ma altrettanto spesso generatori di dolore.

Fare la pace con la vita, nei suoi termini, significa porsi come uno specchio, una mente specchio, che più di riflettere il mondo dinanzi a sé non fa.

Quanto è però difficile non immaginare?

Quanto è dura guardare la vita con estrema lucidità?

Quanto è arduo non desiderare che le cose siano diverse da quelle che sono?

È chiaro, per evitare fraintendimenti, che l’essere umano debba adoperarsi per cambiare ciò che può, esprimendo così il suo potenziale e la bellezza in esso contenuta.

Altrettanto è però chiaro che non si possa fare con tutte le cose ed è qui che, a malincuore, si deve imparare ad accettare la vita per quella che è.

🔻Facciamo un esempio: il comportamento di una persona ci ferisce, per n motivi.

Questo ferirci può dipendere dalla discrepanza fra l’eccessiva idealizzazione che possiamo avere di questa persona e quello che poi, nella realtà, quello che questa persona è (ovvero le azioni che compie, nel caso nei nostri confronti).

In genere l’idealizzazione è del tutto normale, tuttavia a volte diventa eccessiva e non ci fa più vedere la realtà con oggettività.

Idealizzare in modo eccessivo, ad esempio un collega, può portare a un brusco risveglio. Quando infatti si comincia a vedere l’altra persona per come è veramente, il castello di illusioni pazientemente costruito può infatti crollare miseramente, lasciandoci amareggiati. A questo punto il soggetto ha due strade:

1) Continua a idealizzare, negando la realtà e “mettendo così la testa sotto terra”. Questo gli impedirà di usare un coping basato sulla soluzione, ovvero di mettere in atto dei comportamenti volti a rinegoziare la relazione con l’altro.

2) Smette di idealizzare e rimugina su quanto sarebbe opportuno che quella persona si comporti in modo diverso.

“Come si permette di fare così?” è una possibile domanda che la persona si può porre, cadendo nel tranello della doverizzazione, che già lo psicologo Ellis ci mostrava. Con questo termine lo psicologo voleva designare quelle situazioni che a nostro avviso dovrebbero andare in un certo modo, ma invece vanno in un altro:

  • Quella persona dovrebbe essere come io me lo aspetto, altrimenti non ci tiene a me.
  • Quella persona dovrebbe essere come io vorrei.
  • Quella persona dovrebbe comportarsi al fine di farmi del bene, altrimenti è una canaglia.

Come è facile evincere da queste brevi considerazioni, rinunciare a osservare la realtà per quella che è, con la conseguente intenzione di non accettarla o con l’incapacità di fronteggiarla, può generare un certo quantitativo di dolore e di misunderstanding, nei confronti degli altri e dei fenomeni in generale.

La difficoltà di un nuovo atteggiamento si colloca perciò in un moto controcorrente, come il Buddha ben indicava.

🔻Facciamo un altro esempio: a fronte della scomparsa di un caro siamo portati a soffrire, e non vi è nulla di male, anzi.

Se però questo mal del cuore diviene insopportabile, una certa causa va rintracciata nella difficoltà di guardare la vita nei suoi termini, fra cui abbiamo ad esempio l’impermanenza dei fenomeni, che è per l’appunto un caposaldo del funzionamento di tutte le cose.

Andare controcorrente (Patiloma, nel Buddhismo) richiede perciò di guardare la vita con uno sguardo compassionevole, ma al contempo vigile, consapevole e lucido, senza inciampare in proliferazioni mentali di natura nevrotica (le cose non sono come sono, ma sono come io penso che debbano essere).

Il cammino controcorrente ricorda in qualche modo l’evangelica indicazione di Matteo, il quale diceva:

“Entrate per la porta stretta, poiché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa. Quanto stretta è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e pochi sono quelli che la trovano”. Matteo 7: 13-14

Con queste parole l’evangelista evidenziava la difficoltà e l’impegno richiesti nel perseguire il benessere, nel tentativo di eliminare ed estirpare la sofferenza, sino a reciderne le radici, quasi un pò come può esser simboleggiato dalla spada che falcia l’ignoranza in uno dei più importanti bodhisattva cosmici del Buddhismo Mahayana: Mañjuśrī.

Manjushri è la personificazione dell’infinita saggezza di tutti i Buddha. È rappresentato seduto nella posizione del loto, mentre regge con la mano destra la spada fiammeggiante della saggezza, con la quale recide i livelli ottenebranti delle concezioni errate e discrimina accuratamente tra il modo in cui le cose sembrano erroneamente apparire e l’effettivo modo in cui esistono realmente.

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