Che fine ha fatto la tenerezza?
MERCOLEDÌ 26 FEBBRAIO, È SERA E SONO LE ORE 20:00.
Carnevale è alle porte e Lucia si vestirà da astronauta.
Per l’esattezza lo farà già domani all’asilo.
Siccome però al suo vestito mancava il casco, oggi ne abbiamo trovato uno all’ultimo, fatto di stoffa.
Così l’ho fatto avere ai miei. Stasera la terranno con loro a dormire, visto che mamma e papà, per coincidenza, domani saranno entrambi in piedi all’alba.
Mi hanno mandato una foto.
Il casco c’entra poco con tutto il resto e io mi preoccupo che possa non piacerle, o non piacere a qualcuno.
Poi la guardo in viso: è fiera del suo casco. Del suo vestito.
Questa sua immagine mi riscalda il cuore e mi infonde una tenerezza che chi ha figli così piccoli può capire.
Non so descriverla bene: è tipo farfalle nello stomaco, con un senso di protezione e commozione insieme.
In generale si tende a provare tenerezza verso quelle persone, o realtà, percepite come deboli o indifese, si pensi ad esempio anche agli anziani o ai cuccioli.

Allora mi chiedo cosa sia questa emozione, e se magari abbia a che fare anche con il mondo del lavoro.
Di sicuro penso abbia a che fare con me, con noi adulti, che magari in quel casco non in pendant con il costume ci vediamo qualcosa di storto.
Forse perché la vita ci ha induriti, quasi come se la pelle si fosse fatta scorza.
In effetti anche nelle aziende è un fattore spesso comune: siamo sempre più cinici e spietati.
Bravi né, molto bravi a tratti. Ma porca miseria se siamo diventati insensibili.
In un mondo precipitato nella prestazione ad ogni costo, nella competizione furibonda e senza sconti, tutto sembra ricondursi all’Io e alla performance.
Allora mi chiedo se sia ancora possibile praticare questa forma molto particolare di amore, che trova il suo nome nella parola tenerezza.

La parola tenerezza deriva da tèn-uem (da cui anche “tenue”), dal latino, a indicare cosa che si lascia stendere, ossia “malleabile”.
La tenerezza rimanda alla morbidezza, a quel sentimento di affetto e protezione che possiamo nutrire verso un altro essere vivente.
La tenerezza pare perciò antidoto e medicina per riscoprirsi sensibili nella palude dell’anestesia del corpo, e dell’anima.
Essa sembra, almeno per un istante, poterci salvare da quest’indurimento ombelicale che ci ha ingessati davanti alla vita.

Mi chiedo allora come sia possibile guidare un gruppo di persone senza che ogni tanto non si provi un senso di tenerezza verso di loro.
Io lo sento ogni tanto, anche verso i miei alunni.
Perché se gratto bene, sotto quella scorza, vedo volti che non sono così dissimili da quello di mia figlia.
Ci vedo a volte dei bambini spaventati, o al contrario allegri perché si può, si deve, esserlo anche fra le pareti di un’impresa.

Essere teneri significa commuoversi davanti alla vita, che prende forma anche nelle persone che incontriamo.
Si tratta di un’attivazione i cui contenuti mentali consistono in una disposizione affettiva e di contatto verso un’altra persona, sul piano della vicinanza e dell’intimità. A livello gestuale, la manifestazione di tenerezza verso l’altro è ben rappresentata dalla carezza, che non è solo corporea, ma come ben spiegava Eric Berne, può essere anche rappresentata da un complimento, un riconoscimento, o addirittura anche da una critica condotta al fine di giovare all’altro.
Dal punto di vista evolutivo, provare tenerezza, è fondamentale dal momento che ci dispone alla cura e all’accudimento di chi ne ha bisogno.
Nello specifico, si prova tenerezza protettiva nei confronti di qualcuno nel momento in cui lo si percepisce come indifeso rispetto a delle potenziali avversità, esposto perciò ad una possibile sofferenza o a un potenziale fallimento.
Personalmente in tutto questo ci vedo tante connessioni con il mondo del lavoro, a maggior ragione le vorrei vedere in chi, per scelta o per dovere, si trova a guidare o supportare altre persone.
Ma questa connessione la vorrei vedere a qualunque livello, perché da essa, probabilmente, dipende anche la sopravvivenza di quegli organismi che chiamiamo imprese.
Di sicuro la tenerezza è balsamo per chi traballa in una difficoltà.
È capacità di farsi meno per sostenere l’altro, scorgendo una fragilità che non è così dissimile da quella di una bambina con il casco d’astronauta.